24 Hours Faces – Avete mai pensato a quello che fate nel corso di una giornata? Quali sono i vostri pensieri, i vostri incontri, a come scorre il vostro tempo in quelle 24 ore, in quei 1440 minuti, durante quegli 86400 secondi? Dormirete dalle 5 alle 8 ore, trascorrerete un’ora e mezza mangiando, un tempo che non voglio questionarvi a fare l’amore con la persona che amate (o con altre che amate meno), un’ora a correre dietro a un pallone vero e almeno un’altra a discutere della stessa cosa con uno sconosciuto su internet. Maledirete poi il traffico della vostra città quando chiusi in auto spenderete altri 7-8000 secondi. Tutto incredibilmente lungo ma allo stesso tempo brevissimo a seconda della prospettiva. E allora provate a pensare a una gara che sia lunga 24 ore, 1440 minuti, 86400 secondi consecutivi. Alle persone che, contemporaneamente, devono dare tutto quello che hanno, per far sì che questa storia sia raccontata. Ecco, in quelle 24 ore, tutto gira attorno alla gara, ogni altro pensiero va messo da parte o almeno bisogna provarci. Dal mio punto di vista non è la prima, ma è come se lo fosse. Avevo il compito di raccontare una storia e alla fine tutto è diventato “emotional” perché sono così, non posso guardare, scattare e raccontare senza provare a entrare dentro la storia. E la storia mi ha inglobato, mi ha fatto sua e mi si è impressa sul corpo, mi è scivolata sotto la pelle e mi ha fatto anche un po’ male, perché un evento sportivo ha la sua piccola dose di difficoltà, di sofferenza ed è straordinario poterla raccontare. Durante quei 20 mila respiri tutto ruota attorno a un obiettivo. Dal lato dei media si tratta di un lavoro totalmente diverso: nell’ora in cui di solito vai verso l’albergo a riposare, sei ancora agli inizi e tutti sono sui computer a fare editing o a mandare comunicati stampa, sempre con un occhio ai tempi e alle immagini della gara dove si susseguono curve, sorpassi, incidenti, delusione, felicità. Poi la notte comincia a scendere qualcuno più fortunato può concedersi qualche ora di riposo in albergo mentre chi rimane sa che troverà qualche sedia di fortuna sulla quale stendersi per dormire un’ora o al massimo due, con le sveglie che cominciano a suonare a turno, leggère per non disturbare i colleghi ricordando che ci si deve ripreparare per un pit-stop o per valutare la situazione della gara. Ci sarà una safety car? La pioggia continuerà battente nella tremenda e spaventosa notte? Quest’anno c’è stata persino una bandiera rossa. Non si può correre, troppo pericoloso. Troppo. Alle 5.30 del mattino, in uno dei momenti più complessi a livello fisico e mentale, tutto viene fermato. E allora chi deve provare a recuperare qualche energia spuria, si gode un inaspettato sonno, certo con un occhio aperto e uno chiuso, ma sempre una goccia di riposo prezioso. Scendo scendo nel box e trovo quasi tutti addormentati. Voglio scattare delle foto e invece riesco a farne una sola, perché mi sembra di violare quel momento così intimo, dove tutti trovano una sistemazione di fortuna, principalmente per terra, per poter ricaricare il proprio corpo. Ed è in quel momento che penso ai piloti, a quanto siano diversi da me e a quanto cerchi, non riuscendoci, di immedesimarmi in loro. Riesco a immedesimarmi nell’adrenalina di una gara “normale” ma non in quella di una 24 Ore. Quanta tensione, quanta paura, quanta voglia possono stare dentro una singola persona per così tanto tempo? Quanto bisogna essere concentrati e qua ti sì è svuotati alla fine? E allora guardo i loro visi, le loro posizioni sulla pit-lane in attesa di salire in macchina di nuovo perché la gara sta per ripartire in una mattinata un po’ più clemente e noto che sono diversi da quelli che avevo fotografato le altre volte e questo mi ha segna, mi fa immedesimare a un livello differente, più profondo e più forte e mi fa capire l’umanità delle gare, che pur se combattute su dei mezzi meccanici, hanno dentro il cuore delle persone. E quegli occhi non li dimenticherò facilmente